Con IoT, acronimo inglese di Internet of Things (“Internet delle Cose”, o “Internet degli Oggetti”), intendiamo la grande rete digitale che abbiamo imparato a conoscere e usare in ogni momento della nostra giornata.

Qualsiasi oggetto può connettersi all’Internet of Things, purché sia dotato di un indirizzo identificativo (es. IP address), vale a dire di un’etichetta numerica che ne consenta l’identificazione univoca sulla Rete, e di un software che gli dia la possibilità di scambiare dati attraverso la stessa Rete senza bisogno dell’intervento umano. L’elenco delle cose connesse all’IoT è vastissimo e continuamente aggiornabile: si va dalle lampadine alle automobili, dalle dotazioni per il fitness alle videocamere, dalle radio e tv agli impianti di climatizzazione. 

Gli oggetti che fanno parte dell’IoT sono “intelligenti” come i macchinari di cui avevamo parlato affrontando il tema dell’Industry 4.0: costantemente interconnessi, capaci di autodiagnostica e di risolvere i problemi che possono sorgere nel tempo. Se nell’Industry 4.0 a dominare è il modello dello “smart manufacturing”, grazie all’IoT possiamo godere di uno “smart living”, di una casa e di un ambiente di vita smart in cui le luci si accendono da sole quando fa buio o al nostro comando da remoto, gli impianti di riscaldamento e condizionamento dell’aria si mettono in moto autonomamente col variare delle condizioni climatiche esterne. 

Dispositivi che interagiscono tra di loro, con il mondo esterno, con gli esseri umani, migliorandone la qualità della vita, riducendo sprechi e rischi.

Come nasce l’IoT

La comunicazione tra macchine (in inglese Machine to Machine, abbreviato in M2M) è comunemente considerata come l’apripista del concetto di IoT. 

Semplificando, all’evoluzione dal M2M all’IoT hanno contribuito la diffusione di Internet e quella del Cloud Computing, la “nuvola” informatica che Microsoft definisce come “la distribuzione di servizi di calcolo, quali server, risorse di archiviazione, database, rete, software, analisi e molto altro, tramite Internet”. 

L’anno chiave è il 1999, quando il ricercatore britannico Kevin Ashton, fondatore al MIT di Boston di un gruppo di ricerca sulla tecnologia RFID (dall’inglese Radio-Frequency IDentification, in italiano identificazione a radiofrequenza), usa per la prima volta l’espressione “Internet delle Cose”. 

Il “debutto” dell’IoT avviene davanti ai vertici della multinazionale Procter & Gamble, che Ashton incontra per sensibilizzarli sui benefici che le forniture di P&G avrebbero potuto ricevere dall’introduzione della tecnologia RFID e, più in generale, dalla connessione tra Internet e il mondo fisico grazie a una rete di sensori distribuiti.

Sempre nel 1999, Neil Gershenfeld, docente e ricercatore presso il Massachusetts Institute of Technology, dà alle stampe un libro dal titolo “When Things Start to Think”, pubblicato l’anno dopo in Italia col titolo “Quando le cose iniziano a pensare”. L’espressione IoT comincia a prendere piede negli Stati Uniti qualche anno dopo: nel 2003-2004 compare nei titoli di qualche giornale e di qualche libro. In quello stesso periodo, sempre negli Usa, i sensori RFID cominciano a essere diffusi su larga scala.

Le applicazioni dell’IoT

Dai primi anni Duemila a oggi, l’evoluzione tecnologica ha fatto passi da gigante, portando l’IoT nelle case di tutti. Ma non è che l’inizio: sempre più, nei prossimi anni, ci abitueremo alle possibilità della domotica, alle comodità di smart city in cui l’illuminazione, il traffico, i parcheggi sono regolati in modo intelligente da sensori connessi in rete e collegati a un cloud. Secondo l’azienda americana Gartner, specializzata nelle ricerche di mercato e molto attenta agli sviluppi dell’IoT, il numero dei dispositivi connessi raggiungerà 14,2 miliardi nel 2020, sfondando quota 25 miliardi nel 2021 (“Top Strategic IoT Trends and Technologies Through 2023”). 

Tra le comuni applicazioni dell’IoT ci sono i wearable, oggetti intelligenti e indossabili come gli smartwatch collegati agli smartphone, come gli occhiali interattivi che ci consentono di esplorare la realtà virtuale o la cosiddetta “realtà aumentata”, come i bracciali capaci di geolocalizzazione e in grado di monitorare le attività umane, tanto nel tempo libero quanto sul lavoro. 

Grazie alla tecnologia RFID – per restare nel campo dei wearable – si può semplificare e migliorare la raccolta dei rifiuti urbani, ricorrendo a una soluzione hardware indossabile che legge il tag posizionato sul sacco o sul bidone. E’ questa la soluzione Smart Discovery Waste di Partitalia, già operativa presso vari comuni in tutta Italia. Un esempio che racconteremo più da vicino la prossima volta.

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